La Corte di Cassazione Civile, Sezione III, con ordinanza n. 26301 del 29 settembre 2021, ha stabilito che la morte del feto determinata dai sanitari è un vero e proprio danno da perdita del rapporto parentale ed il relativo pregiudizio rileva in ordine a diversi aspetti “come il panico, gli incubi e il mutamento delle abitudini di vita conseguenti alla morte del feto in utero” che “non possono considerarsi affatto come un tipo di danno assolutamente avulso rispetto alla domanda di risarcimento formulata ex art. 2059 c.c.” dovendosi valorizzare “appieno l’aspetto della sofferenza interiore patita dai genitori”.
FATTO
Una coppia di genitori, a seguito della morte del feto avvenuta a causa dell’imperizia e della negligenza dei sanitari presso i nosocomi dove la gestante era stata visitata e poi trasferita, incardinava un giudizio innanzi al Tribunale di Verbania, contro la A.S.L. di competenza, per ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali subiti.
Il giudice adìto qualificava la domanda risarcitoria dei danni non patrimoniali “per perdita del frutto del concepimento” utilizzando, per la liquidazione del danno, le tabelle di Milano per la perdita del rapporto parentale. Venivano operate delle decurtazioni poichè dette tabelle erano riferite all’ipotesi di un figlio nato vivo e poiché gli attori non avevano fornito la prova che giustificasse la personalizzazione del risarcimento nonostante fossero state formulate dagli attori ma non ammesse dal giudice.
La sentenza di primo grado veniva impugnata dai genitori innanzi alla Corte di Appello di Torino, stante l’incompletezza dell’istruttoria all’esito della quale non erano stati messi in condizione di provare alcuni dei fatti costitutivi della pretesa risarcitoria e l’effettiva natura e consistenza dei danni patiti.
La Corte di Appello di Torino confermava la sentenza del Tribunale di Verbania.
Avverso la sentenza di secondo grado veniva proposto ricorso per Cassazione.
LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
La Corte si discosta totalmente dal percorso logico – giuridico seguito dal giudice di prime cure e poi confermato dalla Corte Territoriale e cassa la sentenza impugnata.
La sentenza è rilevante sia in ordine al risarcimento del danno da perdita parentale in cui, come dinanzi cennato, è stata ricompresa la morte del feto, che ai requisiti che deve avere l’atto di citazione in appello in quanto viene precisato che lo stesso debba seguire il “concetto” di specificità e non quello di autosufficienza che è invece riferibile al ricorso per cassazione.
La Suprema Corte censura, pertanto, la sentenza d’appello nella parte in cui ha dichiarato inammissibile l’intero gravame in quanto “l’inammissibilità dell’appello per difetto di specificità dei motivi poteva essere legittimamente dichiarata” solo se l’incertezza avesse rivestito l’intero contenuto dell’atto. Si sottolinea come sia quindi stato frainteso dalla Corte Territoriale che ha sostenuto l’“autosufficienza” dell’atto di appello, “il principio per cui l’appello costituisce una revisio prioris istantiae” essendo chiamata la Corte d’Appello a stabilire se la pretesa attorea sia fondata ed essendo i giudici “chiamati in tale sede ad esercitare tutti i poteri tipici di un giudizio di merito, se del caso svolgendo la necessaria attività istruttoria”.
Invero, proprio in merito all’attività istruttoria, gli Ermellini sottolineano l’errore in cui sono incorsi sia il giudice di prime cure che i giudici del gravame i quali avevano rigettato le istanze istruttorie degli attori, seppur correttamente formulate e reiterate, in quanto erano frutto di una mutatio libelli poiché il panico, gli incubi ed il mutamento delle abitudini di vita, conseguenti alla morte del feto, che volevano provare gli attori per fornire ulteriori indici di gravità del fatto idonei a giustificare la personalizzazione del risarcimento, erano state considerate circostanze che non rientravano nei danni non patrimoniali per la “perdita del frutto del concepimento”.
Di tutt’altro avviso è infatti la Suprema Corte che evidenzia come quello che la sentenza impugnata definisce, “riduttivamente e impropriamente come danno da perdita del frutto del concepimento altro non è che un vero e proprio danno da perdita del rapporto parentale, avendo la Corte territoriale omesso del tutto di considerare come anche la tutela del concepito abbia fondamento costituzionale”. Pertanto, i componenti del consorzio familiare sono legittimati a far valere una pretesa risarcitoria che trova fondamento negli artt. 2043 e 2059 c.c., nonché negli artt. 2, 29 e 30 della Costituzione e all’art. 8 della CEDU che dà rilievo al diritto alla protezione della vita privata e familiare.
Ai fini del calcolo del risarcimento del danno si dovrà quindi valorizzare “appieno l’aspetto della sofferenza interiore patita dai genitori, poiché la sofferenza morale, allegata e poi provata anche solo a mezzo di presunzioni semplici, costituisce assai più frequentemente l’aspetto più significativo del danno de quo”.
E proprio in tal senso le Sezioni Unite (sentenza n. 26972/2008) che hanno ammesso che la prova possa fornirsi anche per presunzioni semplici, fermo restando però l’onere del danneggiato di fornire gli elementi di fatto dai quali desumere l’esistenza e l’entità del pregiudizio.
Ed infatti “il pregiudizio non biologico a bene immateriale, come la sofferenza per la perdita di un congiunto, va comunque provata, ma sono sufficienti le presunzioni semplici (o hominis) ove la parte abbia adempiuto all’onere delle allegazioni. Una volta che la presunzione semplice si è formata, si trasferisce sulla controparte l’onere della prova contraria. A fondare la presunzione semplice è la connessione di ragionevole probabilità che lega il “fatto base” noto al fatto non noto. Orbene, dove il danneggiato abbia allegato il fatto della normale e pacifica convivenza con il proprio familiare e la sofferenza interiore per la morte/lesione del prossimo congiunto, tale da determinare una alterazione del proprio relazionarsi con il mondo esterno, inducendolo a scelte di vita diverse, incombe sul danneggiante dare la prova contraria idonea a vincere la presunzione della sofferenza interiore” (Cassazione Civile, sez. III, 06/04/2011, n. 7844).
“Esiste, difatti, una radicale differenza tra il danno per la perdita del rapporto parentale e quello per la sua compromissione dovuta a macrolesione del congiunto rimasto in vita – caso nel quale è la vita di relazione a subire profonde modificazioni in pejus”.
Tale distinzione rende necessaria quindi la “differenziazione che rileva da un punto di vista qualitativo/quantitativo del risarcimento”, conformemente alle più recenti teorie psicologiche sulla elaborazione del lutto che, superando quelle originarie, sostengono che sia “una idea fallace la cosiddetta elaborazione del lutto, poiché camminiamo nel mondo sempre circondati dalle assenze che hanno segnato la nostra vita e che continuano ad essere presenti tra noi. Il dolore del lutto non ci libera da queste assenza, ma ci permette di continuare a vivere e di resistere alla tentazione di scomparire insieme a ciò che abbiamo perduto”.
“Il vero danno, nella perdita del rapporto parentale, è la sofferenza non la relazione. È il dolore, non la vita, che cambia se la vita è destinata, sì, a cambiare, ma, in qualche modo, sopravvivendo a sé stessi nel mondo”.